I SHOT THE SHERIFF

INTER-SHERIFF 3-1

Oltre che per il ritardo, chiedo scusa per il titolo più banale che poteva uscire dalla penna di un vecchio rocker come me. E non fate i maestrini dicendo che il pezzo è reggae, chè io come tanti altri l’ho scoperto nella versione di Slowhand Clapton.

Comunque, solida e meritata vittoria per i nostri, che segnano tre gol e ne sbagliano una decina di altri, riuscendo nell’impresa di non farmi stare tranquillo nemmeno stavolta.
Inzaghi fa la mossa che avrei fatto domenica prossima contro la Juve, e cioè schierare Dimarco al posto di Bastoni come “braccetto” di sinistra, in modo da sfruttarne la velocità insieme a quella di Perisic a tutta fascia. Il risultato è buono lo stesso, visto che l’italiano ha gamba reattiva e un sinistro che a quelle latitudini non si vedeva da tempo.
Vidal completa la mediana dietro a Brozo e #Baredovesei, e fa la sua porca figura con la ciliegina del gol.
Davanti Lautaro si dimena per 90 minuti senza riuscire a trovare il gol ma muovendosi bene, mentre Dzeko fa la sua miglior partita in maglia nerazzurra, che pure inizia mangiandosi un gol solo davanti al loro portiere, dopo acrobatico suggerimento del Toro.

La girata di sinistro che vale l’1-0 è un trattato plastico di tecnica e equilibrio tra forza e precisione che andrebbe mandato in loop alle scuole calcio di mezzo mondo. Non basta, chè il bosniaco ricama calcio a tutto campo, regala assist ai compagni (vedi Vidal per il secondo gol) e si esibisce in un recupero difensivo da applausi, condito da dribbling di classe in area e ripartenza sul compagno in uscita.
La responsabilità per la seconda e ultima palla sbagliata della partita è solo colpa mia, visto che dico a voce alta “Dzeko sta facendo una partita di un’intelligenza spaventosa” nell’esatto istante in cui toppa un passaggio orizzontale e fa scattare il loro contropiede. Mi perdonerete.

Le note dolenti arrivano da Dumfries, primo a mangiarsi un gol facile-facile e unico a non raggiungere la sufficienza: si riprende giusto nel finale con un paio di giuste imbucate e con l’assist di testa per De Vrij sul gol del 3-1. Per ora è uno splendido quattrocentista coi piedi fucilati. Speriamo che l’autunno lo faccia maturare senza bisogno di metterlo in botti di rovere.

Loro: poca cosa, e senza nemmeno il culo avuto nelle precedenti rocambolesche vittorie. Accettano senza il minimo problema il nostro gioco, rintanandosi e cercando di attivare un contropiede che non è nemmeno velocissimo, e che raramente ci crea problemi.
Handanovic è bravo nel primo tempo a fermare un tiro di sinistro sul suo palo; non altrettanto nella ripresa, quando arriva a fine slancio solo a toccare il pallone calciato su punizione da 30 metri da Thill. Il tiro è bellissimo, ma un gol così entra solo con la fattiva collaborazione del portiere.

Il pareggio poteva giocare brutti scherzi, conoscendo la labile psiche dei nostri, e invece la partita prosegue sulla stessa falsariga, con i ragazzi a ricercare subito il vantaggio e a trovarlo pochi minuti dopo con la già accennata combinazione Dzeko-Vidal. A quel punto sono loro ad accusare la botta, e i nostri trovano il terzo centro con una bella girata di De Vrij, ancora sugli sviluppi di corner, cosa di cui stranamente non ho ancora sentito blaterare. Forse le tante occasioni create – ne ho contate una decina, gol esclusi – hanno tappato sul nascere la bocca ai tanti Luoghi Comuni Maledetti legati alla sterilità della manovra nerazzurra o sull’imprescindibilità dei calci da fermo per sbloccare la partita.

Permalosità a parte, ci rimettiamo in carreggiata nel girone. Niente è ancora fatto, ma toppare mercoledì avrebbe voluto dire salutare la Coppa dopo sole tre partite. The King of Spannometric dice che con due vittorie contro Sheriff e Shakhtar potremmo essere tranquilli anche in caso di sconfitta contro il Real, ma dei miei mi fido ancor meno che degli avversari, quindi testa bassa e pedalare.

LE ALTRE

Non potendo dire che il Milan ha perso #atestaalta, la critica ha legittimamente attinto ai tanti infortunati nella rosa di Pioli, volando alto sull’inconsistenza di Giroud e Ibra e sulla misura della sconfitta, ben più ampia del risicato 1-0 finale, arrivato oltretutto su un’azione più che dubbia del Porto. Al solito, c’è che si spinge oltre, e dall’ottimismo oltrepassa le porte della percezione finendo per sconfinare in un affascinante visione fideistica: per il Milan aver perso tre partite può essere uno stimolo, una spinta. Insomma, meglio così.

La Juve replica le ultime partite fatte di solidità granitica, poche occasioni ed ennesimo 1-0 portato a casa, per la frustrazione dei tanti giochisti e col ghigno beffardo di Allegri. Ribadisco: mi preoccupano assai, e domenica sarebbe proprio i caso di far rifiorire i tanti dubbi che ultimamente hanno convertito in certezze.

Ho invece visto una splendida Atalanta mettere sotto il Manchester United all’Old Trafford per un tempo, e avere ancora un paio di occasioni per fare il terzo gol dopo il pari di Maguire. Poi, come spesso accade in questo mondo crudele, arrivano quelli forti e CR7 vince la partita. Ma la prestazione resta, e la fiducia nel poter passare il turno anche.

E’ COMPLOTTO

Premetto che la mia è una sensazione, non ancora suffragata da evidenze concrete, ma la preferenza attuale riservata all’Inter è a mio parere ancora figlia della “luna di miele” riservata ad Inzaghi in quanto nuovo allenatore. La sconfitta con la Lazio a mio parere era meritevole di maggiori critiche, che invece si sono limitate a bonarie ramanzine sull’importanza di mantenere la concentrazione alta per tutti i 90 minuti.
Pochi sottolineano le tante reti subite e le troppe occasioni non concretizzate: il tutto è coerente con la predilezione per un calcio d’attacco, spensierato e noncurante delle falle difensive, inevitabile lato B di un disco basato su pressing alto e manovre ariose.
E ancora: tutto è accompagnato dalla piacevole inoffensività dell’Inter. Ecco dove arriva il mio sofisticato teorema complottista: ci incitano a continuare così, ci spingono a rimanere inoffensivi, poco pericolosi, comprimari a un banchetto in cui gli ospiti d’onore sono gli altri.

I confronti con l’anno scorso sono volutamente parziali: rispetto a quella di Conte, l’Inter di Inzaghi ha segnato di più e subito di meno. Vero. Non uno però che ricordi la svolta dello scorso campionato, arrivata proprio di questi tempi, dopo la quale la difesa ha chiuso la porta a doppia mandata e Lukaku, Martinez e Hakimi hanno maramaldeggiato nelle aree avversarie.

L’auspicio è che anche l’attuale allenatore trovi il cacciavite giusto per serrare un paio di giunture e dare più equilibrio alla squadra. I punti da recuperare non sono pochi, ma la strada è lunga.
La partita con lo Sheriff potrebbe essere un inizio promettente, a patto di ribadire il concetto già nei prossimi giorni.

“Sempre allegro il Lolli eh?” (cit. dedicata a Brozo)

NATA VOTA

SHAKHTAR-INTER 0-0

Per la terza volta in dodici mesi, i brasiliani di Ucraina ci costringono ad un insipido e pericoloso pareggio a reti bianche, riaprendo scenari apocalittici in ottica Champions.

La contemporanea vittoria dello Sheriff neintemeno che al Santiago Bernabeu complica ulteriormente le cose, con tutte e quattro le squadre ancora in corsa per la qualificazione.

Mai stati bravi noi nel trarre il meglio da incastri complicati e aperti a tante soluzioni diverse: di solito la Legge di Murphy ci guarda benevola, quasi rassegnata come a dirci “ragazzi, ma sempre da voi devo venire?“. La speranza è che questa sia l’eccezione che conferma la regola.

De Zerbi non ha tardato ad imprimere il suo gioco a quelle latitudini, e quindi assistiamo ad un palleggio insistito che, sebbene non crei chissà cosa -ah che banalità tirare in porta…- d’altra parte ci tiene per lunghi quarti d’ora a correre a vuoto, sprecando energie che fatalmente vengono meno sotto porta.

Una brutta partita in cui il solo Skriniar brilla per costanza ed efficacia: è lui a salvare un gol già fatto in uno dei rari casi in cui il petting calcistico dello Shakhtar arriva alla penetrazione (so’ poeta, checcevoifa’?); sempre lui a fermare i tentativi di incursione dei vari brasiliani in rosa. Per il resto, tutti vivacchiano sul 5,5, con minime variazioni verso l’alto – Sanchez per una volta ha reso preziosa la sua mezzora da trottolino amoroso – e verso il basso – Dzeko e Martinez si mangiano un gol a testa che mi costa decine di punti Paradiso.

Ciononostante, creiamo cinque palle gol nitidissime, salvo mangiarcele da sole (vedi supra), spararle sulla traversa (Barella a voragine come il miglior Stankovic) o trovare il vecchio portiere in serata di grazia (nel finale prima su tir’aggir’ di Correa e sul corner successivo su capocciata di De Vrij). Non poco, ma nemmeno abbastanza: il pari è giusto e, cosa più importante, fa pensare.

La sensazione è stata quella di una squadra per la prima volta stanca e non reattiva: gli stessi Barella e Brozovic hanno girano ben al sotto dei loro standard, con il croato a conoscere l’onta della prima sostituzione stagionale, lui che da tutti, Inzaghi compreso, viene definito come l’architrave irrinunciabile del nostro centrocampo.

La ricetta del dottore è semplice: tocca battere due volte gli Sceriffi sperando in altrettanti pareggi tra ucraini e Real, per poi trovare almeno una vittoria nelle ultime due gare. Il bonus-rodaggio e i jolly da giocare ce li siamo già fumati. Vincere tre delle prossime quattro insomma, dopo aver raccolto un punto nelle prime due. Hai detto niente…

Champions a parte, e senza voler infierire gratuitamente su Dzeko, faccio solo presente una cosa. Il bosniaco non è stato “opaco per la prima volta in stagione” come ho sentito dire a commento della prestazione. Ha giocato più o meno come le altre volte, solo che fino a martedì aveva accompagnato i tanti errori sotto porta e in impostazioni al gol salvifico (vedi Atalanta, vedi Bologna…), mentre in Ucraina si è limitato alla prima parte del copione.

La speranza è che il ritorno di Correa possa garantire un effettivo turn over tra i tre (chè anche Lautaro deve rifiatare) che riesca a migliorare la lucidità in zona gol. Vero che siamo il primo attacco del Campionato, ma – non so a voi – a me restano molto più in mente i gol sbagliati di quelli fatti.

Sabato andiamo a Sassuolo, trasferta che negli anni ci ha visti uscire con le pive nel sacco o dopo averli seppelliti di gol. Poi ci sarà la sosta, motivo in più per non fare cazzate e rimettersi in carreggiata, anche perché le altre stanno bene, come la stessa Champions ha dimostrato.

LE ALTRE

La partita migliore delle quattro italiane l’ha fatta l’unica che ha perso: il Milan nella prima mezz’ora ha dominato contro l’Atletico di Simeone. Rimasta in dieci per una doppia ammonizione di Kessié, che nella circostanza ha dimostrato di avere l’intelligenza calcistica di un Muntari qualunque (altro che “arbitro brutto e cattivo“…), gli spagnoli hanno continuato a cincischiare, creando un paio di occasioni con Suarez ma poco altro.

La traversa di Leao – splendida rovesciata – avrebbe portato il parziale sul 2-0 e lì credo che sarebbe finita.

Paradossalmente l’Atletico, pur avendo l’uomo in più, è stato bravo a tenere aperta la partita, e alla fine il pari è arrivato con una bella azione chiusa da Griezmann.

Da interista, ho goduto parecchio nel vederli perdere al 96′ per un rigore che più dubbio non si può. Non posso definirlo inesistente, perché la palla in effetti finisce sul braccio del difensore: il problema è che appena prima è l’attaccante a fare altrettanto. Ripeto: godibile spettacolo per un tifoso come me, avvelenato dal proverbiale e collaudato affair tra i cugini e il dischetto. Detto questo, la sconfitta arriva come la peggiore delle beffe.

Mi aspettavo il titolo “A testa altissimissimissima” ma si vede che non ci stava su una riga sola, e quindi si è ripiegato su un per nulla partigiano “Milan Scippato“.

L’Atalanta ha fatto la sua partita, confermandosi squadra solida e capace di portare a casa il risultato anche senza andare a mille all’ora per 90 minuti.

Purtroppo brava la Juve, anche se gli esteti del bel giuoco saranno inorriditi per le due linee a protezione del vantaggio di Chiesa. Fossi juventino (che Dio me ne scampi), sarei contentissimo della prestazione ancor prima che del risultato. Occhio, chè questi stanno tornando, e lo stesso Bonucci, nemmeno troppo tra le righe, riconosce che gli ultimi due anni sono stati un po’ buttati nel cesso.

Lasciamo la Cèmpions per qualche settimana e testa sotto col Campionato: qui i rivali stanno viaggiando a velocità folli, tocca non farli scappare via.

Lo Spiazel One sembra dire “questo lo segnavo anch’io”. Confermo. Anche oggi. Anche in mocassini.

INERZIA POSITIVA

FIORENTINA-INTER 1-3

Mezz’ora per cagarsi sotto, sessanta minuti per rimettere le cose a posto.

Giusto in tre parόle” (cit.), ecco la sintesi della trasferta infrasettimanale dei nostri a Firenze.

Partendo per una volta dagli avversari, resta il dubbio se la prima parte di gara sia una situazione replicabile da parte della Viola o se quel mix di pressing e verticalizzazioni continue sia troppo bello per essere vero e, soprattutto, sostenibile. I giusti e condivisibili peana a Italiano per il culo che ci hanno fatto per buona parte del primo tempo si scontrano con i limiti di replicabilità di un approccio tanto intenso e ambizioso: la speranza, ma tutto sommato anche la convinzione, era che sarebbero calati alla distanza, e pure di schianto.

Già nell’ultimo quarto d’ora del primo tempo i nostri sono riusciti a mettere la testa fuori, e poi nel secondo tempo la barca ha ripreso la sua rotta, ben prima della scellerata espulsione di Nico Gonzales.

La formazione è quella solita di questo inizio di stagione, vista l’assenza di Correa che recupera, praticamente ha già recuperato, forse però parte dalla panchina, nemmeno convocato.

Handanovic ricaccia in gola le critiche ai tanti di noi che avevamo avanzato dubbi sulla sua curva di invecchiamento facendo vedere che, tra i pali, è ancora tra i migliori su piazza. I riflessi di serata sono buoni e – ci conceda almeno questo – la partita non ha necessitato di molte uscite alte: insomma, l’interrogazione perfetta in cui la prof ti fa iniziare con l’argomento a piacere e non ti chiede il capitolo che non hai studiato.

La nostra rimonta, dopo l’iniziale pareggio arrivato però in fuorigioco nel finale di primo tempo, inizia col diagonale sapiente di Darmian, imbeccato da Barella.

Sempre prezioso l’italiano nella sua normalità, da preferire in questo inizio di stagione a Dumfries proprio per la maggior affidabilità. Crescerà il minutaggio dell’olandese, che però farebbe bene a studiarsi l’applicazione e l’intelligenza tattica del collega di fascia.

Restando in tema di autocritiche, dopo Handanovic i miei applausi vanno convinti anche a Dzeko che, dopo 3 gol belli ma inutili ai fini del risultato, piazza la capocciata che ribalta il risultato su corner di Calhanoglu.

Il centravanti bosniaco fa il giusto pieno di complimenti, e rappresenta un unicum nella rosa interista: è infatti il solo a godere di quella che chiamo “inerzia mediatica positiva”. Ne ho già parlato, ma ribadisco: siamo in piena moda di calcio giocato, palleggiato, ricamato, in cui tirare in porta sembra quasi poco elegante, come ruttare a tavola o scaccolarsi davanti alla Regina. Dzeko rientra perfettamente nel galateo calcistico di quest’epoca, e ciò gli vale da salvacondotto nei tanti casi in cui non timbra il cartellino, con mio solenne giramento di balle. A maggior ragione, quindi, complimenti per il cabezazo di Firenze, di splendida e necessaria arroganza calcistica.

La gestione del vantaggio, ritrovato in soli tre minuti, si fa ancor più agevole un quarto d’ora dopo, quando il già citato Gonzales si esibisce nella tipica “sbroccata”, che nemmeno i compagni riescono a placare. Protesta per una trattenuta subita e a suo parere meritevole di ammonizione, continuando a cristare finché il cartellino giallo esce dal taschino dell’arbitro, ma rivolto a lui. Il bischero fa di più, continuando a lamentarsi e facendo l’unica cosa che, in quarant’anni di calcio seguito, rimane costante: la permalosità degli arbitri che ti cacciano fuori dopo un applauso sarcastico. Li puoi mandare affanculo o bestemmiargli i parenti (ask Rizzoli for references…) e potranno sempre dire di non aver sentito, ma battergli la mani davanti, per quanto molto meno offensivo, è una perdita di credibilità che non possono accettare.

Viola in dieci, quindi, e ultimi minuti di tranquillità. Perisic rimpingua il mio fantacalcio col terzo gol che fa capire quanto la squadra sia in palla. Non era facile raddrizzare la baracca dopo il tornado subito nella prima mezzora, eppure i nostri sono rimasti in piedi, hanno preso meglio le distanze, hanno fatto passare ‘a nuttata e portato a casa i tre punti.

VA BENE TUTTO, PERO’…

Torno a sottolineare quanto già detto pochi giorni fa: il fatto che si vinca è cosa buona e giusta, ma non per questo gli arbitri possono divertirsi a cazzeggiare contro di noi.

Detta fuori dai denti, e da tifosotto rancoroso: a Verona c’era un rigore solare su Martinez, sabato contro il Bologna uno clamoroso su Dumfries nel recupero, a Firenze il gol di Sottil nasce da un fallo tanto furbo nelle intenzioni quanto palese nell’esecuzione, che né l’arbitro né il VAR hanno ritenuto di sanzionare. Avrei da dire sul giallo a Skriniar e sul “mani” di Biraghi appena fuori area ma mi limito alla caccia grossa: occhio, perché non sempre saremo “più forti di tutto e tutti” e perché, diobono, non sta scritto da nessuna parte che siccome poi si è vinto gli errori scompaiono.

Giusto non dire nulla a livello societario, chè mica si vuol passare per lamentosi piangina, ma, please, prendere nota e pronti a smadonnare a dovere alla prima occasione.

LE ALTRE

Vincono sia Milan che Juve, faticando abbastanza i primi e molto i secondi. Non che conti molto, a questo punto della stagione: fare punti, testa bassa e pedalare, questo è quel che conta.

Vedo frammenti delle due partite e in entrambi casi mi maledico da solo, visto che la Juve perdeva e il Milan pareggiava quando ho scanalato sedendomi in poltrona presidenziale.

Vedremo stasera Napoli, Roma e Lazio ma il discorso non cambia: pensare alle proprie partite, il resto viene di conseguenza.

È COMPLOTTO

Ho aspettato a scrivere questo pezzo perché mi aspettavo il disco dell’Inter cinica che sfrutta le occasioni a disposizione e rimette le cose a posto.

Devo dire che così non è stato, e la cosa, lungi dal rasserenarmi, mi fa pensare che la stampa sia ancora in luna di miele con Simone Inzaghi: il che va benissimo, per carità. L’onda lunga del è bravissimo a lasciare più liberi i giocatori, non come Conte che li ossessionava” è ancora viva e presente e, se ci pensate, è coerente con la mia interpretazione del rapporto complicato tra Inter e media.

L’assioma è che l’Inter che vince non va bene. Quale Inter ha vinto? Quella di Conte. Quindi quella Inter va sminuita, anche se ciò va a favore della squadra di oggi. Fa niente, quella ancora non ha vinto: cominciamo a buttare fango su quella vincente, il resto si vedrà.

Che poi io sia un caso psichiatrico non è all’ordine del giorno. Lo metteremo nelle varie ed eventuali del prossimo incontro.

Non essendoci altro da deliberare, si dichiara chiusa la riunione.

Oh, finalmente! Massiccio e incazzato, altro che il Cigno…

A TESTA ALTA

INTER-REAL MADRID 0-1

Per i pochi che non ci arrivassero di loro, il titolo ha una corposa dose di sarcasmo, chè certe definizioni a me, come dicono a Roma, me rimbalzano. Sai chemmefrega di perdere così (cosa alla quale sono invece interessatissimi i nostri cugini).

Perdiamo una partita che meritavamo di pareggiare ma non di vincere, visto che la mezza dozzina di palle gol non sfruttate è colpa nostra ben più che merito di Courtois, che deve superarsi solo sul colpo di testa di Dzeko nel secondo tempo. Le altre parate, almeno tra di noi diciamocelo, sono di ordinaria amministrazione: spettacolari perchè l’occasione era ghiotta, ma i nostri sembravano avere il goniometro e mirare al centro della porta. Non a caso l’urlaccio più forte l’ho tirato sul destro di Brozovic che, lemme lemme, è finito a fil di palo a portiere battuto.

La mia analisi della partita non è diversa da quella che si legge sui giornali: buona Inter nel primo tempo, decisamente migliore di un Real lento e compassato, musica diversa nella ripresa. I cambi sorridono a Ancelotti (non Carletto, nemmeno Carlo, mannaggia a tutti i giornalisti che continuano a chiamarlo manco fosse loro cugino): lui fa entrare due giovanotti che guarda caso confezioneranno il sifulotto finale (Camavinga e Rodrygo), noi cambiamo gli esterni senza grossi effetti, se non quello di liberare il velocissimo Vinicius che solo un monumentale Skriniar riesce a fermare appena prima che le sue serpentine diventino fatali.

Dumfries dimostra di avere la velocità di Hakimi, che non è poco, ma di dover lavorare ancora tanto quanto a tattica e intelligenza calcistica. E Hakimi stesso, calcisticamente parlando, è un cavallone, non un filosofo della fascia come Brehme, quindi addavenì baffone… Darmian al momento è da preferire per l’affidabilità che anche ieri sera ha dimostrato. Niente picchi verso l’alto, ma nemmeno svarioni difensivi.

Mi sono piaciuti molto sia Barella che Brozovic, che assommano alle qualità tecniche anche una costanza di rendimento che invece manca totalmente a Calhanoglu, impalpabile anche ieri sera: secondo me è rimasto in campo unicamente nella speranza di una punizione dal limite che la difesa del Real si è guardata bene dal concedere.

Correa -che di suo ha combinato poco o nulla – è entrato ancora al posto di Martinez e non di un Dzeko che, aldilà del paio di occasioni avute, è parso in versione spaventapasseri piantato sulla loro trequarti, senza nemmeno il lodatissimo lavoro di cucitura col centrocampo che tanti applausi gli ha portato (non da me, come sapete). Era da togliere lui? Secondo me sì, giusto per vedere l’effetto che fa, anche perché questo c’ha 35 anni, se basiamo la nostra stagione sul fatto che lui giochi sempre 90 minuti abbiamo un problema.

Ad ogni modo: la Champions è dura e lo sappiamo. La situazione è la stessa degli ultimi tre anni: la qualificazione ce la giochiamo contro le altre due, ma ieri sera un punto avrebbe fatto comodo proprio per la classifica, oltre che per il morale. Aver perso contro un Real comunque rimaneggiato (non c’erano Bale, Marcelo e Kross, Hazard è rimasto seduto 90 minuti) fa male pensando al ritorno al Bernabeu, dove portar via punti sarà ancora più difficile.

Per una volta, insomma, sono più pessimista dei media che parlano di rammarico e dell’inevitabile beffa per la sconfitta finale. Per me non aver sfruttato le occasioni avute (come già a Genova domenica scorsa) è peccato mortale, e più ancora del monumentale Lukaku (facile da rimpiangere) ieri sera mi sarei accontentato del cinico ed essenziale Icardi. Per rispetto delle semidivinità, non arrivo a tirare in ballo la visione celestiale che è apparsa sugli schermi di Amazon nel prepartita, con Milito in compagnia di Julio Cesar e Seedorf a commentare le gesta terrene dei nostri eroi in braghette.

A TESTA ALTISSIMA

Ecco, se allarghiamo il discorso ai cugini un po’ di cose non mi tornano. Stante la contemporaneità non ho visto la partita, se non in forma di sintesi e di commenti post-gara. Se però asciughiamo i commenti dalla saliva dei soliti lecca…piedi, vedo numericamente un dominio del Liverpool interrotto dagli ultimi minuti del primo tempo in cui il Milan riesce a sorprendere i Reds e ribaltare il risultato. Per carità: alla fine abbiamo perso entrambi, quindi ha anche poco senso stare a filosofeggiare sul “come” ma, ancora una volta, la tendenza di certi media a metter tutto insieme parlando di Doppia Beffa, quando non di Orgoglio Milan – Beffa Inter mi fa girare le balle.

Se si vuole fare un’analisi aldilà del risultato (che resta ahimè la cosa più importante) l’esercizio è semplice: l’Inter meritava il pari, al Milan è già andata bene così.

Ma poi chi glielo dice a Theo, Franck, Piolisonfaiar e tutti gli altri?

Infine: applausi a scena aperta a Simone Inzaghi e più probabilmente al suo addetto stampa, vista la varietà di locuzioni usate per non incorrere nel mitologico Spiaze: da Zè ramarico siamo passati a il dispiazere rimane. Chapeau, anzi: Sapò.

Lui era fisso che scrutava nella notte (cit.)

RICOMINCIAMO

INTER-GENOA 4-0

La bella sensazione della pagina bianca da riempire. L’aria, ancora estiva eppure fresca, che ti accarezza la faccia e ti fa respirare un vento nuovo.

La prima di Campionato assomiglia alle sirene di Ulisse: bellissima da vedere, tentatrice nelle sue mille possibilità, ma da maneggiare con assoluta cautela. Un po’ come a capodanno, questo è periodo di propositi ambiziosi, comunicati in pompa magna e spesso rinfoderati poco dopo nel taschino fidando nella distrazione degli astanti. Tornare a vergare le mie bagatelle informatiche a strisce neroblù mi provoca sensazioni simili, come una vecchia cicatrice che torna a prudere e che quasi inconsapevolmente ti trovi a massaggiare di continuo.

Via quindi: insieme al pubblico di San Siro anche queste pagine riprendono vita, nella speranza di divertire me stesso in primis – non ho mai fatto mistero della autoreferenzialità di questo blog – e magari qualcun altro.

Il match

La sintesi estrema, anche se poco raffinata, è che gli abbiamo fatto un buciodiculo così.

Inzaghi sceglie Dzeko unica punta più per mancanza di alternative che per reale convinzione, alternando Sensi, Calhanoglu e Perisic a supporto. Se a questo aggiungiamo che lo stesso bosniaco tende a uscire spesso dall’area di rigore per fraseggiare coi compagni, siamo in una di quelle situazioni che personalmente accrescono la mia percentuale di sacramenti, all’insegna del “a questo gioco qui bisogna tirare in porta!” solitamente seguito da un rafforzativo volgare a piacere.

Le cose per fortuna si mettono bene fin dall’inizio, con il turco ex Milan che pennella un cross bello quanto banale – leggasi: forte, teso a rientrare poco oltre il dischetto del rigore – che Skriniar capoccia in rete dopo appena cinque minuti di partita. Strada in discesa e largo alla fantasia lì davanti. Il raddoppio arriva poco dopo con un bel destro dal limite del nuovo numero 20, preceduto e seguito da una manciata di altre occasioni dei nostri.

Piccola nota polemica e rancorosa: devo essermi perso i commenti del tipo “Da caso irrisolto al Milan a campione nell’Inter!

Il Genoa è – almeno in questa prima versione – poca cosa, e nemmeno la coppia Pandev-Kallon crea grossi problemi. Il giovane africano non può non suscitare la mia personale simpatia visto il Paese di provenienza, che per fortuna non viene macchiata dal gol all’esordio che l’avrebbe resa più indigesta.

Tatticamente, Ballardini continua a difendere a tre, o meglio a cinque, nonostante l’area genoana sia poco popolata, visto il continuo entra-ed-esci di Dzeko che non dà punti di riferimento. La cosa non può che farci piacere e agevolare la manovra dei nostri, che arrivano pressoché indisturbati alla trequarti avversaria.

La ripresa vede qualche cambio nei liguri che però non alterano la solfa della partita: ci sono solo una decina di minuti nei quali i nostri sembrano accontentarsi del doppio vantaggio e che solleticano la mia pazienza. Ma è roba minima, chè Inzaghi inizia a sbraitare dalla panchina e i ragazzi rimettono il muso sul libro e vanno avanti con la lezione. I cambi danno linfa a qualche titolare in riserva e portano al gol di Vidal, dopo geniale assist di tacco di Barella. Nel finale, sempre il cileno pennella un bel cross su cui anche Dzeko si iscrive a referto.

Commento tènnico

Bene, bravi, bis.

Ribadita la pochezza dell’avversario e con tutte le attenuanti della prima di Campionato, mi pare di poter dire (cit. Pizzuliana) che la spina è ben inserita e la corrente arriva senza sbalzi. La cosa che mi è piaciuta di più è stata proprio la costanza, il non accontentarsi, il gestire la partita cercando di trovare altri goals. E questo non perché improvvisamente sia diventato amante del bel giuoco. Se sei in vantaggio e tieni palla, vinci la partita. E siccome non siamo ancora – e forse non lo saremo mai – la squadra capace di fare torello per mezz’ora e addormentare la partita, tanto meglio approfittare dei cinque cambi e continuare a schisciare il piede sull’acceleratore.

Finché ce n’hai, stai lì.

Detto questo, mi dichiaro colpevole in anticipo e non mi accoderò ai peana per Edin Dzeko. Gusto personale, niente di specifico contro il calciatore, che è molto bravo e, con le dovute differenze e senza voler essere blasfemo, come tipologia di attaccante può essere accostato a Van Basten: pennellone, forte fisicamente, molto intelligente e sempre pronto a dialogare coi compagni. Detto ciò, l’olandese rimane di due o tre categorie superiori e quindi dimenticate il paragone azzardato. Mi serviva solo per far capire che non lo sto paragonando a Petagna o Pennellone Silenzi.

E’ un gran giocatore, ma segna poco, aldilà della fredda contabilità che gli assegna 200 gol (in più di 500 partite). Nei sei Campionati giocati alla Roma ha avuto una stagione della Madonna in cui ha fatto 29 gol, ma in tre degli altri cinque non è arrivato in doppia cifra.

Certo, grazie a lui in tanti hanno segnato tanti gol perché è molto bravo a far segnare gli altri ma, come dire, il mio gusto personale preferisce un numero 9 bello ignorante, che prima segna e poi pensa a come servire il compagno. Tra lui e Lukaku, anche se avessero la stessa età, non c’è paragone per me. Dico di più: se devo scegliere, tra lui e Icardi, prendo sempre l’argentino.

Però Lukaku non c’è più, Icardi da mo’ che se n’è andato, Dzeko l’Inter lo cercava da anni, e alla fine è arrivato. Viva Dzeko, quindi. Spero che la decina di gol in meno di quelli a cui ci aveva abituato il belga, e prima di lui l’argentino, possano essere distribuiti tra Martinez e gli altri compagni d’attacco, in modo che il risultato finale non cambi.

E’ Complotto

Attenzione perché qui il ragionamento è sottile.

Nei commenti alla partita troverete tanti paragoni tra la prima Inter di Conte e la prima di Inzaghi, fatto inevitabile dovendo riempire pagine di giornale. Prevedibile che gli applausi siano tutti per lo Spiazel One e per la sua manovra più ariosa e meno essenziale rispetto a quella del tecnico salentino.

Dico “prevedibile” non perché il giudizio tecnico sia corretto, ma semplicemente perché così si comporta la stampa con l’Inter: se c’è da lodare qualcuno, è sempre quello meno “organico” al mondo Inter. Il nuovo arrivato, giocatore o Mister, è sempre quello che può portare novità e miglioramenti in un sistema fallato per definizione.

Altre volte ho fatto cenno ad una sorta di luna di miele di cui beneficia il nuovo allenatore dell’Inter, chiunque esso sia, per il solo fatto di arrivare da altre realtà ed essere in un certo senso “immacolato”. Dategli qualche partita e anche Inzaghi diventerà l’allenatore che privilegia il risultato allo spettacolo, che non fa divertire il pubblico, che si aggrappa a Dzeko per vincere le partite.

La mia previsione – faziosa, paranoica e con altre qualità che lascio a voi definire – è che contemporaneamente monterà la corrente revanchista e nostalgica di Conte, all’insegna del “va beh, ma se deve giocare male tanto valeva tenere Conte che almeno il Campionato l’ha vinto“.

Una hit estiva di fine anni ’80 si intitolava “Sit and Wait“. è quel che faremo noi, inflessibili censori di ogni commento inopportuno sui nostri eroi in braghette.

Bentornati! (a loro e a voi)

Bravi, bravi. Certo che la maglia nuova non si può vedere…

CAZZO, GIA’ DIECI ANNI…

Ai tanti che oggi se lo fossero persi, di seguito il succo di quel che abbiamo detto oggi su Facebook.

Sono già passati dieci anni: a tratti sembrano trenta, altre volte invece sembrano due settimane…

Prima di abbandonarci ai ricordi inebrianti, un minimo di obiettività. Cerchiamo di capire quanto cazzo fosse forte quella squadra, quanto sia stato importante non quell’anno, ma quel ciclo dell’Inter.

Un ciclo durato 5 anni e iniziato come tutti sappiamo. È verosimile che senza Calciopoli l’Inter avrebbe fatto più fatica a costruire quello squadrone, Ibra e Vieira non sarebbero arrivati. Però Julio Cesar, Zanetti, Cuchu, Samuel e Cruz c’erano già. Maicon, Grosso e Crespo sarebbero arrivati comunque. E soprattutto, senza voler riaprire ferite che agli juventini fanno ancora male: il redde rationem di quell’associazione a delinquere che era la Juve è arrivata in ritardo. Io come tanti altri interisti ho sempre visto lo scudetto 2006, il 14°, come un segnale da parte del sistema calcio, un modo per dire “ah scusate, non avevamo capito un cazzo, ora vediamo di rimediare”. Poi in realtà hanno continuato a non capire un cazzo, visto non molto è cambiato, però…

Come sa chi ha letto il libro, il mio rancore l’ho espresso riscrivendo una manciata di campionati al netto delle famigerate sviste arbitrali. Tutti noi, non rancorosi complottisti, semplicemente tifosi dotati di occhi e intelletto, sappiamo che l’Inter avrebbe potuto e dovuto vincere almeno due campionati prima di quello 2005/2006 (parlo del 97/98 e del 01/02, io ci metto anche il 02/03).

Ad ogni modo, si vede che doveva andare così, inutile rimuginarci sopra.

Torniamo a bombazza: Quelle 5 stagioni sono finalmente state la rappresentazione di quel che ho sempre voluto dalla mia squadra: un piano strategico, una coerenza anno dopo anno, che mantenesse inalterati i punti di forza e andasse a migliorare gli aspetti ancora traballanti.

E quindi ecco arrivare Chivu, ecco crescere Ibra a livelli mai visti fin lì (chè nasino alla Juve faceva 10 gol all’anno…), ecco anche la sostituzione agrodolce in panchina. Sbagliata nei modi, sbagliatissima, ma tremendamente efficace.

Il Mancio inizia ad andarsene dopo la sua crisi mestruale post-Liverpool di marzo 2008: da lì inizia un imbarazzante tira e molla che per poco non ci costa uno scudetto, tra il gatto nero di Figo e il sarto di Appiano.

Vedo l’ultima partita di quella stagione (Parma Inter, due gol di Ibra sotto la pioggia) in una maniera solo apparentemente folle. Siamo in cinque: io, mio fratello, il Signor Carlo, Gio e il neonato Pancho.

I tre uomini presto inginocchiati per terra davanti alla tele, la mamma premurosa che si occupa del piccolo ed ha la provvidenziale idea di fare capolino in salotto col pupo in braccio a metà ripresa e chiedere “Come va?”

Ibra nello stesso istante arma il destro e tira lo scaldabagno da fuori area: gol e delirio collettivo. Bandiere che escono dalle tasche e che fin lì erano state scaramanticamente nascoste e noi tre che torniamo i dodicenni che in fondo siamo da sempre.

La donna di casa contempla la regressione pre-adolescenziale che le si para davanti agli occhi, lascia calare il livello dei decibel e sussurra “va beh, io torno di là, così magari il bimbo dorme un po’”.

La risposta all’unisono “Ferma lì! Tu adesso non ti muovi per la prossima mezz’ora!”.

So che i veri tifosi capiranno. Ma non solo loro, anche i campioni ragionano così. Non ci credete?

Facciamo un salto di due anni circa e da Monza ci trasferiamo in un lussuoso appartamento milanese in cui due giovani uomini argentini stanno assistendo -abbastanza interessati- a Roma-Samp:

La Sampdoria attacca e attacca. La bambina, malgrado il volume della telecronaca a palla e il nostro tifo da ultras, si addormenta placida in braccio al papà, e allora la mamma mormora: “Diego, la bambina dorme. Dammela, la metto a letto…”.

Serissimo, Diego Milito, il padre più sollecito e amorevole che ci sia, un uomo serio e intelligente, un cattolico praticante, stringe al petto la figlioletta dicendo: “Neanche per sogno, Sofi. Appena l’ho presa in braccio la partita è cambiata. La pupa sta qui, in braccio al papà”.

J. Zanetti, Giocare da Uomo, Strade Blu Mondadori, 2013

Non serve che vi dica com’è finita quella partita.

Chiaro quindi: io non ho mai avuto dubbi sulla mia stabilità mentale, figuriamoci dopo aver letto che anche il Principe Milito la pensa come me.

Finita la parte aneddotica, il passaggio dal Mancio a Mourinho fa continuare la crescita, che per carità, passa anche da qualche scelta toppata: Amantino Mancini e Trivela Quaresma sono lì a dimostrarlo, ma perfino questi errori andrebbero visti sotto la giusta luce.

Ai tanti che si riempiono la bocca col “Mourinho grande motivatore e comunicatore” e basta, farei vedere in ginocchio sui ceci la varietà di moduli utilizzati da José in due anni. L’uomo con l’ego più smisurato che c’è arriva convinto di usare il 4-3-3, con i due succitati ai lati di Ibra. Quando capisce che non è cosa, si adegua e cambia. Coi giocatori che ho come posso farli giocare? Rombo di centrocampo e due punte. Ah! Come giocava il Mancio! E ‘sti cazzi? Vinco il campionato in carrozza, pure senza dover giocare l’ultima di campionato.

Certo, serve un altro passaggio per arrivare alla perfezione. Ed ecco l’estate del 2009, il colpo da maestro Ibra/Eto’o più una paccata di milioni, Milito e Motta, Cavallo pazzo Lucio e Sneijder giusto in tempo per le 4 pere nel Derby, fino alla conclusione trionfale che tutti conosciamo, vecchia giusto di 10 anni.

Ecco: in tutte le celebrazioni che, grazie a Dio, stanno facendo, io al solito faccio la parte del rancoroso petulante. Occhio, quell’Inter non è “solo” la notte leggendaria di Madrid, quello è un “cazzo” di ciclo di quattro anni, che avrà una bonus track nella stagione successiva.

Ma, esattamente come per il bel giuoco o per il regista, ciclo è un’altra di quelle parole che per la stampa italiana non è applicabile all’universo interista. Noi siamo sempre quelli estemporanei, da una botta e via, ma questo ormai ve l’ho “imparato”!

Quindi: viva l’Inter viva il Triplete, viva quelle stagioni.

Ora, ognuno di noi immagino ricordi dove si trovava in quel Maggio 2010, io sempre in prima fila divanata nel salotto di casa, col rampollo semicosciente (aveva 2 anni, gridava quando gridavo io ma non ricorda nulla…). Per la finale di Champions mi ero scientemente dotato della compagnia di un amico infermiere di cardiochirurgia, all’insegna del “una cazzo di tracheotomia con la penna BIC me la saprà fare!”. La Giò rigorosamente fuori, computer e balcone, che a Maggio va ancora bene. Il problema, povera, è che si è fatta tutta la stagione così.

Ognuno poi si costruisce i ricordi secondo i propri comodi, o forse inconsciamente si va di memoria selettiva.

Ricordo la rabbia quasi maggiore alla gioia dopo la vittoria in Coppa Italia, con quell’orrenda caccia all’uomo che è stata Roma Inter, ennesima dimostrazione del fatto che l’Inter fosse sola contro tutti. Tutta la stampa a tifare Roma. Totti, Perrotta, Mexes, Taddei, Burdisso tutti da cacciare nel giro di mezz’ora, tutti liberi di menare come fabbri ferrai sotto gli occhi bonari di Rizzoli.

Lo Scudetto aveva portato con sé lo stesso sapore, forse perché lo stesso Siena era una sorta di succursale giallorossa, con Curci e Rosi in campo, Sella come vice di Malesani e lo stesso presidente che si chiamava Mezzaroma.

Ho rivisto una sintesi della partita l’altro giorno, fingendo di inciamparci per caso, e i miei ricordi al solito funzionano alla grande, quando si parla di Inter.

Compagnoni a fine partita fa passare meno di 10 secondi prima di aggiungere “L’Inter ha avuto la meglio su un avversario fortissimo: la Roma di Claudio Ranieri!

La notte di Madrid invece, aldilà dell’emozione inevitabile, è passata relativamente liscia -se mi passate il termine-. Come tanti altri interisti, vivevo una strana sensazione di ottimismo, proprio io che ho temuto di uscire contro i coreani al Mondiale per Club del Dicembre 2010.

Si è completato quel parallelo che avevo iniziato a intravedere già nella fase a gironi: la nostra Champions 2010 come l’Italia del Mundial 1982. Un girone complicato, che sfanghiamo non senza fatica.

Subito un ostacolo mica da ridere: il Chelsea per l’Inter, l’Argentina per l’Italia. E in entrambi i casi, con le partite forse migliori di tutto il torneo. Tanti ricordano comprensibilmente la tripletta di Rossi contro il Brasile o la doppia sfida con il Barcellona, ma personalmente il controllo totale del gioco che ho visto a Stamford Bridge non l’ho più visto: 4 volte l’uomo davanti al portiere in meno di un’ora di gioco. Segna Eto’o e partita incartata, loro inebetiti davanti al nostro dominio.

Brasile e Barcellona sono i picchi spettacolari dei due tornei, con Polonia e Spartak Mosca tappe intermedie prima della finale contro i tedeschi, in entrambi i casi quasi una formalità prima di alzare la Coppa.

Forse è la distanza temporale a farmi fare questi romantici paragoni tra tornei diversi, forse sto solo invecchiando… Spero solo di non dover aspettare così tanto prima di rivedere qualcosa di simile!

Ora sono curioso di sapere dove eravate voi dieci anni fa, dove e con chi avete visto le “finali” di quell’anno, come avete vissuto tutto il Lustro d’Oro. Un paio di impavidi si sono già confessati, tra generatori che finiscono la benzina spegnendo la TV e blasfemie pronunciate di fronte all’alta diplomazia internazionale.

APERITIFSPIEL (GIOCO APERITIVO – pt. 3)

I numeri superiori al 20 sono apparentemente di minor fascino ed importanza, se non fosse che molti degli eroi della storia recente dell’Inter hanno indossato casacche con cifre poco consone al calcio ortodosso. Una delle tante metamorfosi del calcio del terzo millennio, di cui -nostalgici o meno- non si può che prendere atto.

E quindi, saltando il numero 21 che non annovera grandi nomi (la scelta di cuore andrebbe a premiare il terzo portiere Orlandoni, persona splendida e autore di un gesto solo all’apparenza formale di cedere il numero di maglia al giocatore che segue, vedi al min 3.30, senza piangere se riuscite), spariamo subito i fuochi d’artificio con il successivo in ordine di apparizione.

Con il numero 22: Diego… Milito

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Un giocatore di classe, talento, intelligenza siderali, che solo i distratti o i prevenuti (o le due cose insieme) possono considerare una meteora nel calcio degli anni 2000. Perfino banale ricordare che tutti i gol delle tre “finali” del Triplete sono stati segnati da lui, mi concentro invece su un aspetto da molti non considerato: è uno dei giocatori a cui ho visto commettere meno errori “concettuali”, Certo, ha sbagliato tiri, gol facili, persino rigori, ma l’idea che aveva in testa era sempre quella giusta. Quante volte abbiamo visto giocatori tirare nonostante ci fosse il compagno smarcato, o avanzare per schiantarsi contro tre difensori invece di tirare da fuori?

Ecco, il Principe l’ho sempre visto lucidissimo, spietato, essenziale in qualsiasi sua azione: devo dribblare? Lo faccio. Devo tirare? Ecco la minella. C’è il compagno libero da servire? Pronti con l’assist. Ogni giorno mi ricavo un minuto di indignazione per la mancata assegnazione del Pallone d’Oro 2010, ed altri due per il mancato inserimento nella shortlist finale, prova palese di complotto istituzionale.

Poi, ragionando col cuore e quindi spogliandomi di quell’imparzialità che faccio fatica a mantenere per più di un minuto, in Milito ho sempre visto un uomo, una persona seria, senza fronzoli (“zero tatuaggi e trenta gol“, per citare una delle mie primissime sbrodole), umile ma cazzutissimo. Insomma, un Campione. E non si ammettono repliche.

Con il numero 23: Marco… Materazzi

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Vince a mani basse la “gara” di colleghi di numero di maglia; è un giocatore troppo sopra le righe per non causare reazioni manichee. O lo ami o lo odi (calcisticamente, s’intende…). Ecco, per me Matrix nel biennio 2005-2007 è stato il difensore più forte in circolazione. Sì, molto più di “sorrisofisso” Cannavaro e del bravo ma fragile (e a mio parere sopravvalutato) Nesta.

Materazzi è stato un giocatore impulsivo, fumantino, poco calcolatore, tutte caratteristiche pericolose, specie per un difensore. Eppure, per tanti dei 10 anni passati in nerazzurro ha saputo far sfruttare il suo fisico, il suo sinistro e la sua personalità per chiudere tanti pericoli e segnare una gragnuola di gol. Ha avuto anche lui il suo quarto d’ora di madonne da parte del sottoscritto nell’Inter-Siena del 2008, quando ha voluto tirare a tutti i costi il rigore che ci avrebbe dato lo scudetto senza dover aspettare la pioggia di Parma. Ricordo El Jardinero Cruz convinto di tirare e Matrix che piglia il pallone e va sul dischetto, con Maicon che spiega all’argentino “lo fa per la sua mamma”. Allucinante…

Chiudo con un ricordo positivo: Italia-Rep. Ceca del Mondiale 2006. In fabbrica col Direttore di stabilimento avevamo detto “non pigliamoci per il culo: chi non è di turno in reparto e può staccare viene in mensa a guardare la partita, e poi recupera a fine giornata”. Io ero lì da poche settimane. Quando Matrix entra al posto di Nesta esce il tifoso che è in me “Vai Marco che entri e segni di testa”. Sguardi perplessi quando non ostili dalla massa di colleghi bianco-rossoneri. Parte il corner di Totti e ribadisco “Vai che adesso la mette”. Tre secondi dopo ce li ho tutti addosso: “Cazzo sei un grande!”. No, è che lo conosco: e ‘ste cose, Matrix, le fa.

Liquidato il successivo numero 24, passiamo oltre.

Con il numero 25: Walter… Samuel

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L’uomo dagli occhi di ghiaccio, il Muro, Mister “stecca sulla caviglia al secondo minuto“. In un certo senso, l’esatto opposto di Materazzi: strade opposte per arrivare però agli stessi livelli di eccellenza. Samuel aggiunge ai tanti trofei vinti due legamenti lasciati sul campo ed una professionalità che ha visto pochi pari, non solo in maglia nerazzurra. Vincente anche in Patria col Boca, in Italia con la Roma e, nel crepuscolo della carriera, perfino in Svizzera con il Basilea, per un totale di 10 campionati vinti (per tacer di coppe varie…)

Anche qui aneddoto personale, vecchio giusto di un anno: A Londra per trasferta lavorativa in giornata, finiamo il nostro appuntamento ben prima del volo di ritorno e ne approfittiamo per una passeggiata in zona Westminster. Sono con una collega, totalmente digiuna di calcio. Camminiamo e mentre lei parla scorgo quelli che negli anni ’50 sarebbero stati definiti “Angeles con la cara sucia“: tre ceffi splendidamente argentini nei lineamenti e nel portamento (eufemismo per dire: tre tamarri). I miei occhi si specchiano nell’azzurro di uno dei tre e mi scappa tutto d’un fiato “Cazzo-Walter-Grande-Scusa-Ti-Rompo-Solo-Due-Secondi-Facciamo-Una-Foto-Insieme!”. Lui acconsente, incredibilmente docile e disponibile. Io emozionato smadonno col cellulare e la mia collega dice “Dai ve la faccio io”: Io lo abbraccio e lei gli fa “Su dai però, un bel sorriso!”. A foto fatta mi dice “Mario, ma non mi presenti il tuo amico?” “Lo parli un po’ d’italiano?” E io da dietro “No, Elena, no, basta, questo mi mena!”. E niente, ho passato le due ore successive a istruirla su chi fosse “il mio amico”. “Ah cacchio, è uno famoso!”. Eh sì…

Con il numero 26: Christian…Chivu

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Una intera carriera di sofferenza e spirito di adattamento. Un terzino sinistro per tutti, tranne che per il diretto interessato. Più volte dirà di aver bonariamente “maledetto” i fortissimi centrali difensivi con cui ha giocato: se non fossero stati a livelli così alti, in mezzo ci avrebbe giocato lui. Invece il suo sinistro, educatissimo, faceva comodo in fascia, dove però servivano anche corsa e resistenza fisica, tutte doti che il povero “Cristal” Chivu o Swarovski non ha mai ricevuto da madre natura.

Forse non un campione assoluto all’altezza dei compagni di reparto dell’Inter del Triplete, ma uno che lì in mezzo ha recitato la sua parte con pieno merito. Il caschetto è una sorta di premio alla carriera, crudele sublimazione di una carriera alle prese tra fratture, lussazioni e altri divertimenti in serie.

Non manca il lato umano, in quella che probabilmente è l’unico caso di pazzia calcistica della sua carriera. il fallo è insensato, cattivo e stupido. Questa è la reazione nel dopo partita. Un campione – di più: un uomo – si vede anche quando sbaglia.

Non me ne vorrà Goran Pandev, ma da Chivu facciamo un balzo in avanti fino all’inevitabile…

Con il numero 32: Bobo… Vieri

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Il centravanti italiano più forte che abbia mai visto giocare (quindi non comprendo Gigi Riva né Bonimba). Personaggio controverso, a metà tra il cazzaro svogliato e il mulo da soma che si allena quanto e più degli altri, Bobone per chi scrive è stato un appiglio in anni di magre calcistiche e non solo. Un vero peccato che i suoi cento e passa gol non abbiano portato a tituli, anche se per un paio di campionati le spiegazioni ci sarebbero anche…

Un sinistro potente, implacabile di testa, àncora di salvataggio per tutte quelle partite in cui la spari lunga in avanti e che ci pensi lui, in culo ai quattromila tocchetti e al “giuoco che deve partire da dietro”. La tenuta fisica è sempre stata il suo tallone d’Achille, non ricordo una stagione nella quale non abbia saltato una decina di partite per infortunio. Per quel motivo si è perso gli Europei del 2000 ed i Mondiali 2006.

Alla prima in nerazzurro sono a San Siro col signor padre e ci stropicciamo gli occhi a vicenda a vederlo segnare i primi tre gol interisti.

Bobone, sempre e comunque Bobone. Nonostante la brutta parentesi rossonera (altro che “il Milan dagli scambi con l’Inter ci guadagna sempre”), nonostante gli scazzi con la Curva dei quali poco mi cale. Non è stata senz’altro colpa sua se quella Inter non ha vinto quel che avrebbe potuto, e dovuto.

Non ce ne sono altri, di numeri leggendari. Ci sono giocatori che avrebbero meritato di esserci, da Berti a Matthaeus, da Baggio a Spillo Altobelli, ma il giochino è spietato.

Il giochino ha anche un rovescio della medaglia, e cioè l’elenco dei cattivi. Vedremo prossimamente quali sono stati i calciatori, sempre presi per numero di maglia, più ricordati nei turpiloqui della sera di chi scrive.

– Continua

APERITIFSPIEL (GIOCO APERITIVO – pt. 2)

Dopo aver rischiato dissoluzioni coniugali, e messo a serio repentaglio amicizie pluriennali, mi armo di coraggio a due mani e proseguo con lo stillicidio iniziato l’altro giorno.

Oggi mi dedicherò ai numeri dall’11 al 20, prendenomi qualche pausa e quindi “risparmiando” un paio di numeri che utilizzerò più avanti.

Iniziamo da uno dei primi veri campioni visti a San Siro.

Con il numero 11: Kalle… Rummenigge

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Come detto, la prima stella internazionale vista all’opera a San Siro. Come Figo, è arrivato avendo già dato il meglio, ma i primi due anni del suo triennio sono comunque stati sufficienti a farci capire che razza di attaccante fosse. Potentissimo, acrobatico (la bagassa dell’arbitro di Inter-Rangers!), un vero mito per il sottoscritto, forse anche perché il formaggino d’oro Grunland era tra i miei preferiti!.

Inizia oltretutto una felicissima parentesi di acquisti dalla Germania che, escluso forse il solo Hansi Muller (simpatico quanto acciaccato) ha portato all’Inter una serie di campioni che lui stesso aveva “benedetto”, e che tanto ci hanno fatto godere a cavallo tra gli anni 80 e 90.

Con il numero 12: Julio… Cesar

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So che nel post-Toldo è passato ad indossare la 1, ma qui fa gioco schierarlo con l’amata 12, tanto per non scontentare nessuno. Ancora oggi non so decidermi nello scegliere tra lui e Zenga quale più migliormente preferito, ma il brasiliano è stato un portiere fantastico per tutto il periodo di permanenza in nerazzurro.

Completo, bravo tra i pali e nelle uscite, buono come para-rigori, notevole anche coi piedi, qualche iniziale problema sul posizionamento sui calci di punizioni (vero Mancio?) aveva come unica pecca un paio di distrazioni all’anno, compensate però ampiamente da tanti sogni acchiappati. Continuo a preferirlo ad altri grandi portieri del recente passato (Toldone, Pagliuca) o del presente (Handanovic), ma onestà impone di riconoscere l’ovvio: l’Inter, di portieri scarsi, negli ultimi 50 anni non ne ha mai avuti.

Salutiamo Seba Rossi con simpatia.

Con il numero 13: Douglas… Maicon

Ecco, con il Maicone ero partito prevenuto, come del resto con molti brasiliani. Atteggiamento uggeggé-uggeggé-alegria-do-Brasil, scarso acume tattico, attitudine difensiva tendente a zero. E questo dovrebbe togliere il posto a Zanetti? Ha ha ha…

Invece, Maicon si è rivelato il miglior terzino destro della storia di questo sport per tutta la sua parentesi nerazzurra. Che Cafù o Dani Alves vengano ricordati ben più spesso di lui è la prova provata del Negazionismo che serpeggia presso la stampa sportiva italiana. Il fatto che i due “rivali” siano stati sulla cresta dell’onda per più anni rispetto al “nostro” non ne fa ipso facto giocatori migliori. Sarebbe come dire che i Beatles sono durati solo otto anni e quindi i Pooh sono più bravi perché son durati quarant’anni. Andate tutti a quel paese: nessuno ha fatto vedere quel che Maicon ha messo in mostra nei 7 anni di Inter (non 10 partite, 7 anni). Corsa, fisico, cross, gol e, col tempo, giusta presenza in difesa (certo, aiutata da Lucio, Samuel e uno dei centrocampisti ma –hey– il sacrificio è ampiamente compensato dai risultati). Il difetto? Una eccessiva tendenza a ridere, specie dopo un errore marchiano, e la sublimazione di uno dei difetti ancestrali dell’Inter: regalare le rimesse laterali all’avversario.

Ma, come dicono a Rio grande do Sul, inscì avèghen

Con il numero 14: Diego… Simeone

Qui urge premessa metodologica. Come sapete, il nostro gioco ha come unico criterio quello del numero di maglia. Tra tutti i coinquilini della stessa casacca, la preferenza poi va data non necessariamente al calciatore più forte tout court, ma a quello che nella parentesi nerazzurra ha fatto meglio. Ecco perché qui non trovate né Patrick Vieira né Clarence Seedorf, probabilmente giocatori più forti del pur valido Simeone, ma che nei loro trascorsi interisti non hanno lasciato il segno indelebile dell’argentino.

Cholo quindi. Altra tessera di quel mosaico di fine anni ’90 che con una maggior legalità e certezza del diritto ci avrebbe visti campioni d’Italia. I primi mesi sono accidentati, con Simoni stesso che gli dice “Diego, San Siro ti fischia, per qualche giornata ti faccio giocare solo in trasferta”. Poi al primo derby la butta dentro e scoppia l’amore. Piedi forse non raffinatissimi, ma grinta, intelligenza calcistica di primissimo livello, ottima propensione all’inserimento – specie di testa -. Come tanti altri nerazzurri paga lo stigma della stampa, che in questo caso ha ingigantito lo scarso feeling tra lui e Ronaldo. Come ho scritto nel libro (compratelo perdìo!), a chi gliene chiedeva conto, rispose “Brutto clima in spogliatoio? Cambiate i condizionatori, tutto il resto è a posto”. Senza contare che il primo a soccorrerlo dopo l’orrendo infortunio dell’Olimpico è proprio lui.

Con i numeri 15 e 16: Nessuno (chi devo mettere: Cauet e Taribo West?)

Con il numero 17: Francesco… Moriero

Torniamo all’applicazione pedissequa del manuale, adattamento calcistico del mitologico Chitarrella per lo scopone scientifico: non può che esserci “il fruttarolo del Salento” a far brillare la maglia 17 (non certo l’immondo Cannavaro), ancora una volta vendemmia 97/98.

In questa storia c’è una discreta dose di culo, evento più unico che raro a latitudini nerazzurre: Moriero in estate è già del Milan, mentre l’Inter ha acquistato il brasiliano André Cruz. Poi, i due si scambiano le destinazioni, per non meglio appurati magheggi contabili al solo costo di un milione… di lire, nemmeno di euro.

Insomma, arriva un’aletta destra tutta riccioli e fantasia che fin lì ha fatto vedere qualche scampolo di classe tra Lecce e Roma. Invece quella stagione sembra Garrincha: dribbla tutti, sforna assist a garganella, segna gol stupendi, pure in rovesciata. Guadagna la Nazionale (“se hace da vuelta estilo Enzo Francescoli” pure lì) e partecipa a Francia ’98 come titolare fisso. Le stagioni successive sono buone ma non all’altezza di quel lampo accecante. Si guadagna il posto per mancanza di alternative credibili e per il copyright di “Sciuscià” ad imperitura memoria.

Con il numero 18: Hernan… Crespo

Non che oggi sia messo male, ma in quegli anni l’attacco argentino poteva pescare a occhi chiusi e schierare Batistuta, Crespo o Cruz come centravanti, e mi limito a quelli che ai tempi giocavano in Italia. Il mio preferito è stato Batigol, che però ha avuto una parentesi alquanto triste e solitaria all’Inter.

Crespo invece è stato, senza tanti giri di parole, un centravanti della Madonna. Forte, completo, giusto mix di classe e tecnica, persona splendida (è a tutt’oggi uno dei pochissimi casi di ex di Inter e Milan ad essere amato da entrambe le sponde del Naviglio), nei suoi anni nerazzurri ha avuto il pregio ed il talento di farsi vedere sia come riferimento principale dell’attacco, sia come utilissima sponda di campioni quali Vieri e Ibrahimovic. Indimenticabile il suo fiuto per il gol, in particolare per alcuni di testa (questo, o questi, per non parlar di questo). Talmente grande da far emozionare anche un cuore di pietra come me quando festeggia così uno dei tanti gol segnati alla Roma, una delle sue ultime realizzazioni in maglia Inter.

Con il numero 1+8, fuori concorso: Ivan… Zamorano

Piccolo artifizio numerico per inserire uno dei miei giocatori preferiti di tutti i tempi. Il Cileno passa alla storia per la scelta del numero di maglia, barba-trucco per ovviare alla cessione della “9” a Ronaldo. Centravanti di altri tempi, con un cuore e due huevos imparagonabili e capaci di supplire a piedi discreti ma nulla più, Zamorano è stato l’esemplificazione della “boglia di bincere” (come l’avrebbe pronunciata lui nel suo splendido accento andino) e probabilmente il miglior colpitore di della storia del calcio. 178 cm di esplosività che lo rendevano capace di saltare in testa a perticoni più alti di lui di 15-20 cm.

Tra i tanti fotogrammi che restano in mente, l’immortale gol con cui apre le marcature a Parigi nella finale di Coppa Uefa, un paio di gol nel Derby, e la marea di insulti in castigliano stretto vomitati contro l’arbitro Ceccarini in quel putrido fine Aprile del 1998. Non c’è interista che non lo porti nel cuore. Ce l’avesse avuta il Chino metà della grinta di questo qua…

Con il numero 19: Esteban… Cambiasso

Euclide applicato al calcio, il giocatore più intelligente mai visto in maglia nerazzurra. Colpo assoluto -anche con un quid di culo, diciamocelo- di calciomercato, il Cuchu arriva nel 2004 a parametro zero dal Real teoricamente come riserva di Davids. In realtà dopo un paio di partite entra in squadra e non esce per i successivi 10 anni.

Regia, contrasto, inserimenti, gol: capelli a parte, tutto quel che volete. Non aveva i piedi di Veron, non aveva il fisico di Nicolino Berti, ma nessuno è stato pietra angolare del centrocampo interista quanto lui. Come e più di tanti altri compagni di squadra, chi scrive nota come il nostro abbia sempre sommato alle qualità calcistiche una sagacia non comune fuori dal campo, perfetto nel rispondere a domande prevenute dei giornalisti così come a esprimere la sua opinione su fatti extra-calcistici. Esempio plastico di kalokagathìa a strisce nerazzurre,

Se fossi una madre americana e lui fosse mio figlio, direi “è lui il prossimo presidente degli Stati Uniti”.

Con il numero 20: Alvaro… Recoba

Eccezione alle regole del gioco per non vedermi tolto il saluto da quei malati mentali del Sig. Carlo e di Sergio. La mia disistima per il Chino non ha ovviamente nulla a che fare con il piede sinistro che madre natura gli ha dato: non ho visto giocare Corso, ma credo sarebbe stato l’unico nerazzurro a poter rivaleggiare per qualità tecnica con quello di Recoba.

Si aggiudica la maglia per carenza di alternative all’altezza (per quanto, a me Angloma non era dispiaciuto!) e perché rappresenta quel che l’Inter è stata per tanto, troppo tempo: un potenziale incredibile spesso buttato alle ortiche per mancanza di costanza. “Ha le potenzialità ma non si applica”, dicevano i miei professori a mia madre (che già lo sapeva, e anzi li inzigava a mazzularmi ancor di più, ma questa è un’altra storia…), quindi nella ramanzina al Chino c’è anche una dose di autocritica.

Ultima nota per il Sig. Carlo, anche per ricordare degnamente uno dei nostri maestri di vita: se noti ho scelto la foto in cui ha “quei capelli da vecchio mignottone no?!”

Continua

APERITIFSPIEL (GIOCO APERITIVO)

In questi giorni di bonaccia calcistica e con la testa comprensibilmente dedicata a questioni più gravi – non oso dire più importanti – la rete si sbizzarrisce nel preparare polpette o altre feste del riciclo assortite, proponendo classifiche ed elenchi tassonomici di partite, calciatori, gol ed emozioni sportive in genere.

Per non essere da meno, sfodero tutto il mio malessere nerazzurro nel compitare il mio personalissimo elenco, guidato dal riferimento numerico più insindacabile che ci sia: il numero di maglia.

Attenzione, non parlo di ruolo in campo, no. Proprio di numero sulla maglietta. E siccome il calcio ormai da qualche decennio ha smesso di avere una corrispondenza ontologica tra numero e ruolo, ecco che troverete centrocampisti con un numero solitamente riservato a difensori e viceversa. Tanto per fare un esempio, l’amatissimo (da me) attaccante Mimmo Kallon, alias il Leone della Sierra, giocava col 2 a Reggio Calabria e col 3 all’Inter.

Come vedrete, lo stratagemma vien buono per aggirare alcune scelte altrimenti dilanianti, su tutte quella del portiere.

Di seguito troverete i primi 10 numeri di maglia, arriverò ad una trentina di numeri di maglia, non necessariamente consecutivi (ma spiegherò il perché strada facendo).

Liberi di commentare e dissentire purché con buona creanza (ma anche no, chissefrega!)

Immaginate ora lo speaker ufficiale dello stadio annunciare nell’ordine:

Con il numero 1: Walter… Zenga

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L’uomo ragno, il primo portiere di cui abbia veri ricordi (Bordon lo ricordo solo vagamente), campione e interista vero, portiere di altissimo livello e personalità strabordante.

Come tanti di quella generazione, ha vinto meno di quanto meritasse. Come tanti (tutti?) gli interisti, dimenticato appena possibile. Tre volte miglior portiere del mondo, un punto di riferimento unico per un decennio, ricordato invece per l’unico errore di un Mondiale altrimenti perfetto e per la migliorabile percentuale sui rigori parati (in effetti suo unico punto debole). Insieme a Zoff e Buffon sul podio dei migliori portieri italiani all time, non necessariamente terzo.

Con il numero 2: Beppe… Bergomi (coro: Sì Fabio!)

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Amato da giocatore, apprezzato da commentatore. Non ha avuto la classe né la personalità per diventare un vero e proprio idolo del sottoscritto, ma è stato un esempio di fedeltà e professionalità per un ventennio. Persona perbene, cosa che all’Inter è una simpatica costante (sì, ne faccio una questione di superiorità ontologica, non rompete i coglioni), è riuscito a passare dal campo al microfono mantenendo le stesse caratteristiche. Criticato da molti interisti per non essere sufficientemente fazioso nelle sue cronache, rappresenta invece quel che chiedo a qualsiasi commentatore: competenza ed onestà intellettuale. Che non significa per forza imparzialità: lui stesso si dichiara interista e non di rado gli scappa un “noi” quando parla dell’Inter, ma ciò non gli impedisce di criticare quando serve. Leggermente troppo assertivo verso il collega di telecronaca (certo Fabio).

Con il numero 3: Andreas… Brehme

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The one and only. Ribadisco il mio parere solo all’apparenza azzardato: il miglior terzino sinistro che abbia mai visto giocare.

Ellamadonna! Più forte di Paolo Maldini? A fare il terzino sinistro sì. Paolino è stato un giocatore più forte perché più versatile e con una carriera che parla da sola, qui parlo proprio di ruolo specifico.

Più affidabile di Roberto Carlos, ala sinistra che ha potuto far quel che ha voluto in dieci anni di Real proprio perché a nessuno interessava il fatto che non tornasse mai a coprire. Meno esplosivo il Bremer (come lo chiamava il Trap), senz’altro, ma il tedesco era realmente ambidestro ed aveva una capacità non solo di cross ma anche di lancio che ne faceva un vero e proprio “regista laterale” (copyright azzeccatissimo di Aldo Serena).

Con il numero 4: Javier… Zanetti

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Il Capitano, di più, il fratello calcistico della nostra generazione: maggiore talento, ma personalità simile all’altro capitano di questa lista (lo Zio), Zanna è stato da me celebrato nel giorno del suo addio con parole che, a distanza di anni, non hanno perso nemmeno una virgola del loro valore intrinseco. La sua storia all’Inter sembra davvero quella di un romanzo sportivo con tanto di lieto fine, ed il fatto che invece sia tutto vero la rende ancora più bella. In vent’anni ha ricoperto una mezza dozzina di ruoli, con il suo 6,5 in pagella come costante. Un supereroe con cosce da extraterrestre ma la faccia da bravo ragazzo, pettinatissimo.

Con il numero 5: Dejan… Stankovic

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È uno dei diversi casi in cui il numero di maglia non corrisponde alla posizione in campo. Il Drago è stato centrocampista totale, raro caso in cui l’eclettismo non andava a scapito della qualità. Detta meglio: sapeva fare benissimo tante cose.

Nelle mie statistiche mentali (e quindi difficilmente suffragate da dati oggettivi), rimarrà sempre il tiratore più sfigato del West, con un numero inenarrabile di pali, traverse, stinchi di portiere a privarlo di numeri ancor più scintillanti della cinquantina di gol fatta in Italia. Quantità, qualità e grinta in servizio permanente effettivo.

Con il numero 6: Stefan… De Vrij

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Non aveva grandissimi rivali “di numero”, giusto Roberto Carlos che però già ho detto non essere nei miei preferiti. L’olandese è invece un luminare della difesa, intelligente nel chiudere e bravo nel far ripartire. Non disdegna qualche capocciata in gol, specie nel Derby, che non guasta.

In un’epoca in cui i difensori devono impostare e gli attaccanti rientrare, mi piace avere un difensore che fa molto bene il suo, e che solo in un secondo momento sa essere utile nel costruire l’azione, offrendo un’alternativa alla atavica mancanza di fosforo della mediana nerazzurra (“a questa squadra manca un Pirlo” ma andateaccagare!). De Vrij vince il mio personale ballottaggio con Lucio, eroe del Triplete ma troppo “cavallo pazzo” per i miei gusti, senza voler infierire con le orrende sottomaglie con cui giocava.

Con il numero 7: Luis… Figo

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Nonostante sia arrivato in nerazzurro già ultra-trentenne, ha fatto vedere sprazzi di classe e talento come pochi. La prima stagione con Mancini – con cui pure non mancarono gli screzi – fu una lectio magistralis di dribbling, assist e qualche sapiente punizia (epica quella del definitivo 4-3 in Supercoppa contro la Roma, dopo essere stati sotto 0-3).

A tutto il talento assommava un basso profilo fuori dal campo, ed una statura morale che nemmeno la manfrina del gatto nero di Appiano ha potuto scalfire. Sta ancora aspettando la restituzione dei 5 mila euro di multa per aver denunciato la presenza di Moggi nello spogliatoio degli arbitri durante un Inter-Juve. Quella simpatia umana di Pavel Nedved gli ruppe il perone arrivando a far arrabbiare perfino il Signor Massimo; fatalmente al suo ritorno l’autonomia in campo era ridotta. Resta un campionissimo che, per una volta, ha visto la propria luce messa in ombra da quel popò di Inter nella quale ha giocato.

Con il numero 8: Zlatan… Ibrahimovic

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Il giocatore più imprevedibile e divertente che abbia mai visto in nerazzurro. Ronie è stato il più forte, ma il campionario di colpi di Ibra non l’ho visto in nessuno. Gli dobbiamo tutti lo scudetto 2007/2008 in quella Parma inzuppata dalla quale ci ha trascinati fuori da campione qual è sempre stato. Caratteraccio, megalomane, egocentrico, poco incline a fare gruppo: tutto quel che volete. Ma come diceva Maurizio Mosca, citando a sua volta il ben più autorevole Italo Allodi: “comincia a prenderlo!”.

Mio papà era allo stadio in quell’Inter-Lazio in cui segnò esultando da par suo in risposta ai fischi che gli erano arrivati proprio dal primo anello verde, su cui da sempre si accomodano le terga mie e dei miei familiari. Ricordo ancora il Signor Padre tornare a casa raggiante e dirmi tutto tronfio: “Visto? Ero io che lo fischiavo, gli ho fatto segnare io il gol!” “Sì ma ti ha mandato affanculo…” “E che me frega, l’importante è che l’ha messa dentro!”.

Machiavellico, in effetti.

Con in numero 9: Samuel… Eto’o

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Inevitabile che alcuni numeri di maglia (tipo questo, tipo il prossimo…) portino a scelte strappacuore e da sudori freddi. Però mi son messo da solo in questo divertente casino, quindi ne pago il prezzo fino in fondo.

Eto’o quindi: l’unico calciatore al mondo ad aver vinto due volte di seguito il Triplete e con due squadre diverse! Due stagioni in nerazzurro, nemmeno tantissime, ma sufficienti a far capire quanto un fuoriclasse possa mettersi al servizio della squadra se c’è da vincere tutto (il riferimento è al primo anno, e basta con la stronzata del “giocava terzino”, giocava esterno in un 4-2-3-1) e tornare invece centravanti coi controcazzi nel secondo anno, quando in stagione i suoi numeri parlano chiaro: 37 gol in tutte le competizioni giocate dall’Inter. Senza avere un fisico eccezionale, è stato un esempio di tecnica, leadership ed intelligenza calcistica che raramente si è vista su un campo di calcio, ancor meno in nerazzurro.

Con il numero 10: Ronaldo… quello vero

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Stratagemma furbetto che mi consente di inserire il brasiliano senza sacrificare l’amato Eto’o, ma che al contempo mi impedisce di inserire Baggio in quello che è nato come puro divertissement e si sta invece trasformando in un sanguinolento deicidio.

Detto ciò, il Fenomeno non può non esserci, essendo semplicemente il giocatore più forte che abbia mai visto giocare nell’Inter. Il primo anno (giocato proprio con la 10) è stato ai limiti dell’inconcepibile per quanto era forte, veloce, letale. Quel grand’uomo di Gigi Simoni ci impiegò poco a capire che “come lui nessuno mai“, e lo disse senza peli sulla lingua al resto dello spogliatoio, formato da esseri senzienti prima che da calciatori, e quindi perfettamente consapevoli che uno così era un lusso che solo loro potevano permettersi.

Uno spartiacque generazionale. Mettendola in musica, Ronaldo è stato come Lucio Battisti nella musica italiana: prima di lui c’erano Claudio Villa, Celentano, Rita Pavone, quando andava bene i cantautori. Dopo di lui è arrivato il rock, il progressive e tanto altro. Ronie ci ha portato nel calcio del 2000, è stato il primo a farci vedere qualità in velocità, forza e controllo. Il tutto facendolo sembrare, se non facile, quantomeno spassoso e divertente. Resta il rammarico di un telaio troppo fragile per contenere quell’esplosività e del modo in cui la storia è finita, ma la magia che ha fatto vedere a tutti noi rimane insuperata.

Devo le mie scuse nell’ordine a:

2- Ivan Ramiro Cordoba

10- Roberto Baggio e Lothar Matthaeus

Continua

L’ANGOLO DEL TÈNNICO

Da persona responsabile e al tempo stesso controcorrente, mi freno dall’aggiungere i miei microbi all’inquinamento informatico di neo-virologi ed esperti di sanità pubblica, e continuo a coltivare il mio orticello, del quale, se non proprio esperto, sono quantomeno titolato a parlare.

Quindi, l’argomento di giornata è il possibile cambio di modulo di Conte e tutto ciò che gira intorno a questa novità tattica.

Anzitutto, chi scrive è sempre fautore della necessità di una certa apertura mentale da parte degli allenatori. Ho negli anni sviluppato un’intolleranza istantanea a qualsivoglia frase che contenga le parole “il mio calcio”. Il calcio non è tuo, ciccio, esiste da 150 anni ed esisterà anche dopo di te. Quindi, calma e gesso: qui nessuno inventa un cazzo.

Secondo: posto che a certi livelli tutti hanno ormai le stesse competenze tattiche e teoriche, a far la differenza sono i giocatori e, ancor di più, la capacità dell’allenatore di convincerli a fare quel che chiede.

Quindi, e a costo di sembrare pedante e ripetitivo: non esiste lo schema migliore di tutti gli altri in assoluto. Esiste quel che è meglio usare in un certo tempo e con certi giocatori.

Ora, per dire, la “moda” calcistica sembra aver abbandonato le ammalianti trame da tiki-taka per abbracciare il gegen-pressing di Klopp e il calcio turbo-orobico di Gasperini (pur con pochissimi italiani in campo, ma era l’Inter zeppa di stranieri ad essere una vergogna, loro sono un esempio per il nostro calcio, chiusa parentesi polemica). Che dire? Sono tipologie di gioco che incontrano il mio gusto in misura maggiore della fitta ragnatela di passaggi in orizzontale ma, ripeto, sono gusti personali. Nulla che abbia a che fare con l’efficacia in sé dello stile di gioco adottato.

In altre parole: con Xavi, Iniesta e Busquets anch’io avrei cercato di tener palla per il 70% del tempo. Con dei “cavalloni” che corrono a mille per 90’, anch’io me la giocherei uomo contro uomo a tutto campo.

E qui arriviamo a parlare di Conte. Lui stesso ultimissimamente ha ricordato di aver iniziato la sua carriera con un arrembante 4-2-4, per poi passare ad un altrettanto intenso 3-5-2. Con “la difesa a tre” ha vinto a Torino e pure al Chelsea, dove pure aveva alternato vari moduli. Con lo stresso schema ha preso l’Inter portandola in testa alla classifica ed a battersela punto a punto fino ad oggi con Juve e Lazio.

Però…

Però le idee, specie nel calcio, invecchiano presto. L’usura è addirittura maggiore del pur notevole dispendio psico-fisico richiesto ai giocatori, spesso “svuotati” dopo un paio di stagioni con Conte.

Il calcio italiano è ancora quello più tattico al mondo, quello in cui gli allenatori sono più bravi in assoluto a “giocarti addosso”. Da noi quasi nessuno è supponente al punto da non considerare l’avversario e giocare il proprio calcio in fotocopia a prescindere da chi si trova di fronte. Anche chi “fa il figo” facendo dichiarazioni simili, poi alla fine ha ben presente punti di forza e di debolezza della squadra che deve affrontare.

Quindi? Quindi i nostri avversari per i primi mesi della stagione hanno fatto fatica a contrastare un centrocampo finalmente pensante con Brozovic e Sensi ad alternarsi nella costruzione e Barella o Vecino a iniettare muscoli e pressing utili a servire il prima possibile Lautaro e Lukaku.

Dopo un po’, complici anche gli infortuni, le varianti allo spartito sono emerse in tutta la loro pochezza e agli avversari è stato facile capire che, fermato Brozovic, la nostra manovra faceva fatica a trovare un’alternativa al cazzo-di-giro-palla-tra-i-centrali-di-difesa.

L’avevamo già sperimentato negli ultimi anni con Spalletti: se il medianaccio di turno, quando non la punta che si sacrifica, va a pestare i piedi ad Ajeje Brozo, la luce si spegne e davanti il pallone arriva con una fatica tremenda.

La cosa si è palesata in tutta la sua evidenza già prima di Natale, accompagnata dalla scritta luminosa Piano “B” cercasi con urgenza, (già che ci siamo pure “C”).

Per fortuna, il calendario era dalla nostra parte, con la pausa natalizia e le strenne del mercato di Gennaio a disposizione.

Ora, sappiamo che il primo mese dell’anno è stato buttato nel cesso come in tante delle ultime stagioni, e che lo stesso calciomercato invernale ha visto i rinforzi arrivare in maniera forse inutilmente stitica (torno alla domanda polemica: perché prendere il pezzo pregiato a fine mese con la speranza di risparmiare qualche soldo, se poi l’hai pagato pure più di quanto ti avevano chiesto ad inizio mese?).

Ad ogni modo, cosa fatta capo ha: Eriksen è arrivato ed ora Conte pare avergli fatto terminare il rodaggio. La partita in Bulgaria di settimana scorsa, ben più che la pur importante vittoria e il si spera benaugurante primo gol del danese, ci ha portato in dono una bella mezz’ora giocata con un inedito 4-3-1-2, che pare cucito su misura proprio per il nuovo arrivato, posizionato nell’ideale posizione di trequartista libero di tirare in porta e servire le due punte, senza dover pensare troppo ai movimenti dei compagni di reparto.

Il cambio è salutato con favore dal sottoscritto (sono fin troppo diplomatico: mi piace davvero un bel po’), anche perché lascia impregiudicato il potenziale della coppia di attacco, portando al tempo stesso Skriniar e Godin a poter giocare nel loro ruolo preferito (De Vrij forse leggermente sacrificato, ma comunque in grado di contendere il posto ad entrambi: in sostanza tre titolarissimi per due maglie). Sulle fasce D’Ambrosio e Young parrebbero i migliori a disposizione, con Candreva alternativa spregiudicata (un’ala a giocare da esterno basso, come Cuadrado, come Cancelo, per la gioia di Adani), mentre a centrocampo Barella e Vecino ne giocherebbero tante, lasciando l’ultimo posto disponibile in palio tra Brozovic e Sensi.

In altre parole, il summenzionato “piano B” lo vedrei così:

C’è anche un “piano C”, forse meno di rottura rispetto al 3-5-2, che tuttavia permetterebbe come si dice in gergo di “rovesciare il triangolo di centrocampo” e lasciare Eriksen a ridosso delle punte, con Barella a spalleggiare Brozovic in mediana, avendo Sensi quale validissima alternativa ad entrambi, a seconda del match.

Una roba del genere:

Nulla di definitivo, ancora una volta: semplicemente un’alternativa che possa far salire il numero di frecce al nostro arco, che possa ampliare il repertorio e servire a scardinare partite che non vogliono sbloccarsi, che possa diminuire la nostra prevedibilità.

Che ne dite? Che ne dici Mister? Si può provare…